Lucio Corsi e il paradosso di “Volevo essere un duro”: la fragilità è la vera forza
Corporatura esile, capelli lunghi, costumi di scena home-made, Lucio Corsi è la vera rivelazione di Sanremo 2025: ha affascinato ed emozionato, riuscendo ad entrare nel cuore del pubblico sin dalla sua prima apparizione sul palco dell’Ariston.
Con il suo brano “Volevo essere un duro” ha fatto centro perché ha trattato un tema universale, in cui ognuno – che voglia ammetterlo o meno – si può riconoscere: l’essere fragili.
Chi di noi non vorrebbe essere un duro? Chi non vorrebbe avere quella forza d’animo e quella sicurezza di sé che la società si aspetta? Eppure dobbiamo fare i conti con la realtà: la fragilità è una condizione intrinsecamente umana.
Ma come vivere la vulnerabilità in un mondo che non ammette di essere fragili?
La società della performance
Viviamo in un’epoca in cui dobbiamo essere sempre performanti, decisi, infallibili. Non si ha la libertà di sbagliare senza essere giudicati, non è ammissibile avere incertezze sul proprio percorso di vita, si cresce con la costante paura del fallimento. Ed è così che, nel tentativo di apparire nel miglior modo possibile agli occhi degli altri (e ai propri), aspiriamo a standard di efficienza che ci rendono più simili alle macchine che agli esseri umani.
Insomma, siamo immersi in una soffocante pressione sociale che plasma un ambiente competitivo e tossico. Ci troviamo nel XXI secolo, eppure, dal punto di vista del vivere collettivo, sembra di essere regrediti allo stato di natura concepito dal filosofo Thomas Hobbes: un’epoca primitiva in cui gli uomini vivevano di competizione e conflitto, in cui il più “duro” aveva la meglio.
Dietro la corazza
Feuerbach scriveva che “il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere”. Si tratta di parole attuali in una società che ha ormai fissato un paradigma comportamentale incentrato sulla forza, che inevitabilmente provoca la perdita del contatto con la propria dimensione autentica e umana. In questo modo si rafforza la convinzione che, per essere considerati “all’altezza”, sia necessario dotarsi di una corazza che mascheri le insicurezze e le fragilità.
Tuttavia, al di sotto della maschera del “duro”, quelle fragilità continuano ad esistere. Immaginiamo di avere una crepa su una parete bianca e di coprirla con un quadro: la crepa in realtà non è scomparsa, continua ad essere lì sotto, anche se dall’esterno non riusciamo a vederla. D’altronde le cose più preziose tendono sempre ad essere protette e celate: una perla non è forse chiusa nella sua ostrica? Un diamante non è forse incastonato nella roccia? Un tesoro non è nascosto in una cassa blindata? Ebbene, bisogna proteggere le nostre fragilità allo stesso modo: non sopprimerle, bensì custodirle, coltivarle e trasformarle in punti di forza e unicità.
Saper essere fragili
“Quando sono debole è allora che sono forte” dice San Paolo nella “Lettera ai Corinzi”. Infatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, fragilità non è sinonimo di debolezza. La fragilità è la voce più autentica di noi stessi: ci ricorda che siamo vivi e ci consente di ascoltare la nostra parte più profonda e intima.
Quando cerchiamo di essere forti ad ogni costo, in realtà non stiamo facendo altro che danneggiarci perché ci alleniamo ad anestetizzare la nostra emotività. La corazza che costruiamo è un inganno: sul momento sembra aiutarci, ma di fatto ci allontana dalle emozioni e ci impedisce di capire il mondo.
Connettersi con la propria vulnerabilità è poi importante poiché ci predispone all’ascolto e quindi anche ad entrare in connessione con l’altro. Questa capacità acquista un valore inestimabile nell’epoca dei social, in cui la comunicazione è asettica e l’esercizio dell’empatia è sempre più raro. In questo modo, l’uomo si sta allontanando dalla sua vera natura, quella di essere un “animale sociale” (ζῷον πολιτικὸν), proprio come ci ha insegnato Aristotele.
Chi è il vero duro?
Con il suo inno alla sensibilità e all’autenticità, Lucio Corsi ha portato all’attenzione pubblica un tema di grande rilevanza. Ci ha mostrato che il vero duro non è chi si corazza, ma è chi sa accogliere le proprie fragilità senza il timore di mostrarsi vulnerabile, poiché sa che l’essere umano è anche questo. È chi giunge alla consapevolezza che non servono maschere per affrontare la vita, ma solo il coraggio di ascoltare la propria voce interiore e restare sempre fedeli a sé stessi. È chi comprende che siamo ciò che siamo e che non c’è niente di più bello. Perché in un mondo di apparenze e aspettative irraggiungibili avere il coraggio di essere sé stessi è il vero atto di ribellione.