Ma…valgo davvero? La sindrome dell’impostore
Se prima di inviare la tua candidatura per un posto di lavoro, hai desistito concentrandoti sull’unico requisito che ti mancava; se dopo un esame in cui credevi di essere andato particolarmente male, hai scoperto che in realtà eri andato benissimo, significa che avrai sentito parlare della cosiddetta “sindrome dell’impostore”.
Cos’è la sindrome dell’impostore
Con l’espressione “sindrome dell’impostore” si indica quella condizione psicologica, diffusa soprattutto tra le persone di successo (donne in particolare), che causa un dubbio costante sulle proprie capacità e una paura interiorizzata e persistente di essere smascherati come “impostori”.
Chi ne soffre è convinto di non meritare il successo personale ottenuto e che i risultati formativi o professionali raggiunti siano da attribuire non alle proprie capacità, ma a fattori esterni quali la fortuna, il tempismo o addirittura la sopravvalutazione da parte degli altri.
Due donne contro un dubbio sistematico
Pauline Clance e Suzanne Imes erano due giovani psicologhe americane, ambiziose e capaci, che mettevano però sempre in dubbio la propria bravura. Clance, divenuta assistente presso l’Oberlin College, si trovò a contatto con altre promettenti studentesse alle prese con lo stesso senso di inadeguatezza e con la stessa sensazione di aver ingannato tutti nel pensare di appartenere a quell’ambiente.
Fu così che Clance iniziò a fare le sue prime ricerche sul fenomeno e a scambiare le sue osservazioni con la collega, Suzanne Imes. Le due psicologhe raccolsero numerose testimonianze e, dopo che alcune donne intervistate confessarono di sentirsi come “impostori” tra i loro brillanti compagni di corso, Clance e Imes iniziarono a usare il termine anche nei loro studi.
Perché il termine “sindrome dell’impostore” è fuorviante
Dopo 5 anni passati ad intervistare molte donne di successo (circa 150), nel 1978 Clance e Imes pubblicarono uno studio dal titolo The Impostor Phenomenon in High Achieving Women: Dynamics and Therapeutic Intervention (Il fenomeno dell’impostore nelle donne ad alto rendimento: dinamiche e intervento teraupetico).
L’espressione iniziò così a circolare, ma fu con i social media che la “sindrome” si diffuse più ampiamente.
Smettetela di dire alle donne che hanno la Sindrome dell’Impostore
Nel 2021, a quasi 50 anni di distanza dalla prima ricerca di Clance e Imes, altre due studiose, Ruchika Tulshyan e Jodi-Ann Burey, hanno pubblicato un articolo su questo tema, dal titolo “Smettetela di dire alle donne che hanno la sindrome dell’impostore”.
Nel primo studio degli anni 70, Clance e Imes avevano analizzato l’ambiente che le circondava: donne bianche che interiormente affrontavano dei dubbi, ma che potevano essere rassicurate sulle proprie capacità dall’ambiente esterno.
Diversa è la situazione odierna, soprattutto per le donne di colore che affrontano sul posto di lavoro razzismo, classismo, xenofobia e altri bias (‘distorsioni’) sociali e che sono erroneamente diagnosticate con tale “sindrome”.
La stessa Tulshyan, di origini indo-singaporiane, leggendo insieme a Burey l’articolo di Clance e Imes, notò che non si trattava di uno studio clinico, ma di una raccolta empirica di osservazioni aneddotiche. Le due studiose arrivarono quindi alla conclusione che un concetto pensato per liberare le donne fosse stato usato invece come un altro modo per mantenerle lontane dal potere.
Smettiamola di ingannarci
Ancora oggi persiste la convinzione fuorviante che si debba “Correggere la sindrome dell’impostore nelle donne”, mentre ci si dovrebbe impegnare di più per creare un ambiente che coltivi le diversità, di genere ed etniche, e che affronti i pregiudizi sistematici.
Anche perché se è così comune mettere in dubbio le proprie capacità, solo così si può arrivare allo sviluppo di un sano rapporto col dubbio che sia motivazione di crescita positiva.