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“Verità per Giulio Regeni”

A più di 4 anni dalla morte di Giulio Regeni, l’Egitto non ha ancora chiarito le cause che portarono al sequestro e all’omicidio del ricercatore italiano al Cairo. Oggi la famiglia Regeni non chiede solo “Verità per Giulio”, ma giustizia.

In queste settimane Paola e Claudio Regeni, in ragione della mancata collaborazione egiziana alle indagini, sono tornati a chiedere l’intervento decisivo della Farnesina: chiudere i rapporti con l’Egitto e ritirare l’ambasciatore italiano dal Cairo. A questo scenario si è aggiunto l’appello di varie associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, per interrompere le esportazioni italiane di armi verso l’Egitto.

Per capire le motivazioni di queste drastiche richieste è necessario ripercorrere i fatti e analizzare la situazione sociopolitica egiziana.

Il rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni

Giulio Regeni era un dottorando italiano dell’Università di Cambridge. Si trovava in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati dei venditori ambulanti, un tema politico molto delicato per l’Egitto. Poco tempo prima del suo rapimento, avvenuto il 25 gennaio 2016, Regeni era stato denunciato alle autorità come “sovversivo” a causa del suo “eccessivo interesse” nei confronti dei sindacati. Il ministero dell’Interno egiziano ha ammesso di aver indagato su Regeni, ma dichiara che il caso fu archiviato in 3 giorni e senza conseguenze.

Il 25 gennaio 2016 Giulio viene rapito mentre si sta recando a una festa. I suoi rapitori, ancora oggi ignoti, non lasceranno alcuna traccia. Il corpo di Giulio verrà ritrovato il 3 febbraio 2016 in un fosso lungo la strada del deserto del Cairo, martorizzato da torture ripetute.

L’omicidio di Giulio Regeni ha dato vita in tutto il mondo, e soprattutto in Italia, a un acceso dibattito politico sul coinvolgimento del Governo egiziano nella sua morte. Da qui sono scaturite forti tensioni diplomatiche con l’Egitto.

#StopArmiEgitto

Un’altra questione enigmatica riguarda le armi fornite dall’Italia all’Egitto. Alcune associazioni umanitarie – tra cui Amnesty international, Rete disarmo e Rete per la pace – hanno recentemente lanciato la campagna #StopArmiEgitto per chiedere al Governo italiano di rispettare la legge 185 interrompendo la vendita al regime egiziano di due fregate a cui potrebbero aggiungersi navi, pattugliatori e aerei. Sarebbe la più grande commessa che l’Italia ha autorizzato dal dopoguerra.

Il modello autoritario egiziano

Il 25 gennaio 2011 (esattamente 5 anni prima della scomparsa di Regeni) aveva avuto inizio la Primavera Araba in Egitto. Una serie di proteste e sommosse per far cadere il despota Hosni Mubarak dopo trent’anni di potere. Un governo tirannico incolpato di continua violazione dei diritti umani, non molto diverso da quello che si insinuerà poco tempo dopo – nel 2013, con un colpo di stato – e che è al potere ancora oggi, il governo autoritario del generale Abdel Fattah al-Sisi.

Il governo Al Sisi, in questi 7 anni, si è macchiato di arresti, torture, sparizioni e morti sospette. Utilizzando come armi: corruzione, manipolazione, illusione di sicurezza interna, autorità dell’esercito e monopolizzazione del potere. Un modello autoritario che, migrando in altri paesi arabi, si presenta come salvatore della patria. La negazione dei diritti umani, la povertà, il lavoro sommerso, la debole rete di protezione sociale, le disuguaglianze: sono solo alcuni aspetti della disperazione della popolazione egiziana.

Regeni, Hegazy, Zaki: quali diritti umani in Egitto?

La situazione dei diritti umani in Egitto è ormai nota in tutto il mondo e diverse nazioni hanno espresso la loro preoccupazione. Patrick Zaki e Sara Hegazy sono solo alcune delle storie ormai note e analoghe a quella di Regeni.

Il primo è un dottorando egiziano presso l’Università di Bologna, arrestato in Egitto lo scorso febbraio con l’accusa di “propaganda sovversiva su Facebook”. Un’imputazione che può condannare alla reclusione a vita. Nonostante l’intervento del governo italiano per chiedere la sua scarcerazione, Zaki è ancora in prigione.  La seconda, Hegazy, era un’attivista lgbt arrestata e torturata per 3 mesi per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto. Sara non è riuscita a sostenere il peso emotivo di quelle torture. Si è suicidata lo scorso giugno negli Stati Uniti, dove si era rifugiata per scampare alla condanna inflittale dal governo egiziano.

Giulio, Patrick e Sara sono solo alcune delle tante vittime del governo Al Sisi.

Una storia senza finale

Quello che la famiglia Regeni chiede da più di quattro anni, con coraggio e determinazione, senza cedere allo sconforto, è di restituire un finale a questa tragedia trovando gli assassini di Giulio.

Non sappiamo quali saranno le scelte del governo italiano nei prossimi giorni, ma è ragionevole chiedersi se sia opportuno mantenere rapporti di “amicizia” con un Paese autoritario che nega il rispetto dei diritti umani. Una posizione non solo lontana, ma diametralmente opposta ai valori fondanti della comunità europea.  L’unico finale certo è che Giulio sta continuando a rappresentare la richiesta dei diritti umani nel mondo. Come dimostra il murales romano realizzato dalla street artist Laika in cui Regeni abbraccia Zaki. Con la speranza che possa proteggerlo e portare alla sua liberazione.

Federica Giosi

Redattrice, copywriter e blogger. Laureanda magistrale in Digital Marketing&Business Communication. Ho una “stanza tutta per me” dove custodisco libri e riviste per nutrire le idee. Credo in una comunicazione responsabile che renda i cittadini consapevoli delle proprie scelte.

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